Katerina Tsapopoulou
Libia. Torture nei campi di detenzione: le nuove immagini choc
Paolo Lambruschi sabato 4 gennaio 2020
Donna appesa a testa in giù e presa a bastonate: le cronache dell'orrore
dal lager di Bani Walid, in Libia. Sei morti in due mesi. Spuntano i
nomi degli schiavisti: «Ci stuprano e ci uccidono»
Una giovane eritrea appesa a testa in giù urla mentre viene bastonata
ripetutamente nella "black room", la sala delle torture presente nei
centri di detenzione in Libia. Questa è una sequenza di frame del video
choc spedito dai suoi aguzzini ai familiari della donna presa a
bastonate allo scopo di estorcere soldi per salvare la figlia
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Una giovane eritrea appesa a testa in giù urla mentre viene bastonata
ripetutamente nella "black room", la sala delle torture presente in
molti centri libici per migranti. Il video choc - di cui riportiamo solo
alcuni fermo immagine - è stato spedito via smartphone ai familiari
della sventurata che devono trovare i soldi per riscattarla e salvarle
la vita.
È quello che accade a Bani Walid, centro di detenzione informale, in
mano alle milizie libiche. Ma anche nei centri ufficiali di detenzione,
dove i detenuti sono sotto la "protezione" delle autorità di Tripoli
pagata dall’Ue e dall’Italia: la situazione sta precipitando con cibo
scarso, nessuna assistenza medica, corruzione. In Libia l’Unhcr ha
registrato 40mila rifugiati e richiedenti asilo, 6mila dei quali sono
rinchiusi nel sistema formato dai 12 centri di detenzione ufficiali, il
resto in centri come Bani Walid o in strada. In tutto, stima il "Global
detention project", vi sarebbero 33 galere. Vi sono anche detenuti
soprattutto africani non registrati la cui stima è impossibile.
La vita della ragazza del Corno d’Africa appesa, lo abbiamo scritto sette giorni fa,
vale 12.500 dollari. Ma nessuno interviene e continuano le cronache
dell’orrore da Bani Walid, unanimente considerato il più crudele luogo
di tortura della Libia. Un altro detenuto eritreo è morto qui negli
ultimi giorni per le torture inferte con bastone, coltello e scariche
elettriche perché non poteva pagare. In tutto fanno sei morti in due
mesi. Stavolta non siamo riusciti a conoscere le sue generalità e a
dargli almeno dignità nella morte. Quando si apre la connessione con
l’inferno vicino a noi, arrivano sullo smartphone con il ronzio di un
messaggio foto disumane e disperate richieste di aiuto, parole di
angoscia e terrore che in Italia e nella Ue abbiamo ignorato girando la
testa o incolpando addirittura le vittime.
«Mangiamo un pane al giorno e uno alla sera, beviamo un bicchiere
d’acqua sporca a testa. Non ci sono bagni», scrive uno di loro in un
inglese stentato. «Fate in fretta, aiutateci, siamo allo stremo»,
prosegue. Il gruppo dei 66 prigionieri eritrei che da oltre due mesi è
nelle mani dei trafficanti libici si è ridotto a 60 persone stipate nel
gruppo di capannoni che formano il mega centro di detenzione in campagna
nel quartiere di Tasni al Harbi, alla periferia della città della tribù
dei Warfalla, situata nel distretto di Misurata, circa 150 chilometri a
sud-est di Tripoli. Lager di proprietà dei trafficanti, inaccessibile
all’Unhcr in un crocevia delle rotte migratorie da sud (Sebha) ed est
(Kufra) per raggiungere la costa, dove quasi tutti i migranti in Libia
si sono fermati e hanno pagato un riscatto per imbarcarsi. Lo conferma
lo studio sulla politica economica dei centri di detenzione in Libia
commissionato dall’Ue e condotto da "Global Initiative against
transnational organized crime" con l’unico mezzo per ora disponibile, le
testimonianze dei migranti arrivati in Europa.
I sequestratori, ci hanno più volte confermato i rifugiati di Eritrea
democratica contattati per primi dai connazionali prigionieri, li hanno
comperati dal trafficante eritreo Abuselam "Ferensawi", il francese, uno
dei maggiori mercanti di carne umana in Libia oggi sparito
probabilmente in Qatar per godersi i proventi dei suoi crimini. Bani
Walid, in base alle testimonianze raccolte anche dall’avvocato italiano
stanziato a Londra Giulia Tranchina, è un grande serbatoio di carne
umana proveniente da ogni parte dell’Africa, dove i prigionieri vengono
separati per nazionalità. Il prezzo del riscatto varia per provenienza e
sta salendo in vista del conflitto. Gli africani del Corno valgono di
più per i trafficanti perché somali ed eritrei hanno spesso parenti in
occidente che sentono molto i vincoli familiari e pagano. Tre mesi fa, i
prigionieri eritrei valevano 10mila dollari, oggi 2.500 dollari in più
perché alla borsa della morte la quotazione di chi fugge e viene
catturato o di chi prolunga la permanenza per insolvenza e viene più
volte rivenduto, sale. Il pagamento va effettuato via money transfer in
Sudan o in Egitto.
Dunque quello che accade in questo bazar di esseri umani è noto alle
autorità libiche, ai governi europei e all’Unhcr. Ma nessuno può o vuole
fare niente. Secondo le testimonianze di alcuni prigionieri addirittura
i poliziotti libici in divisa entrano in alcune costruzioni a comprare
detenuti africani per farli lavorare nei campi o nei cantieri come
schiavi.
«Le otto ragazze che sono con noi – prosegue il messaggio inviato
dall’inferno da uno dei 60 prigionieri eritrei – vengono picchiate e
violentate. Noi non usciamo per lavorare. I carcerieri sono tre e sono
libici. Il capo si chiama Hamza, l’altro si chiama Ashetaol e del terzo
conosciamo solo il soprannome: Satana». Da altre testimonianze risulta
che il boia sia in realtà egiziano e abbia anche un altro nome,
Abdellah. Avrebbe assassinato molti detenuti.
Ma anche nei centri di detenzione pubblici in Libia, la situazione resta
perlomeno difficile. Persino nel centro Gdf di Tripoli dell’Acnur per i
migranti in fase di ricollocamento gestito dal Ministero dell’Interno
libico e dal partner LibAid dove i migranti lasciati liberi da altri
centri per le strade della capitale libica a dicembre hanno provato
invano a chiedere cibo e rifugio. Il 31 dicembre l’Associated Press ha
denunciato con un’inchiesta che almeno sette milioni di euro stanziati
dall’Ue per la sicurezza, sono stati intascati dal capo di una milizia e
vice direttore del dipartimento libico per il contrasto
all’immigrazione. Si tratta di Mohammed Kachlaf, boss del famigerato Abd Al-Rahman Al-Milad detto Bija, che avrebbe accompagnato in Italia nel viaggio documentato da Nello Scavo su Avvenire. È finito sulla lista nera dei trafficanti del consiglio di sicurezza Onu che in effetti gli ha congelato i conti.
Ma non è servito a nulla. L’agenzia ha scoperto che metà dei dipendenti
di LibAid sono prestanome a libro paga delle milizie e dei 50 dinari (35
dollari) al giorno stanziati dall’Unhcr per forniture di cibo a ciascun
migrante, ne venivano spesi solamente 2 dinari mentre i pasti cucinati
venìvano redistribuiti tra le guardie o immessi nel mercato nero.
Secondo l’inchiesta i danari inoltre venivano erogati a società di
subappalto libiche gestite dai miliziani con conti correnti in Tunisia,
dove venivano cambiati in valuta locale e riciclati. Una email interna
dell’agenzia delle Nazioni Unite rivela come tutti ne fossero al
corrente, ma non potessero intervenire. L’Acnur ha detto di aver
eliminato dal primo gennaio il sistema dei subappalti.
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